mercoledì 28 settembre 2016

ETOLOGIA PRIMATOLOGIA. F. DE WAAL, Frans De Waal: anche gli orangotanghi, nel loro piccolo, fanno progetti, LA STAMPA, 28 settembre 2016

Frans de Waal è un primatologo e professore di psicologia all’università statunitense di Emory (Atlanta). Il testo che qui anticipiamo è uno stralcio della lectio che terrà sabato a Torino Spiritualità (ore 21, Aula magna della Cavallerizza Reale) sul tema Siamo così intelligenti da capire l’intelligenza degli animali?(titolo anche del suo nuovo libro, in uscita per Raffaello Cortina editore).  






Il termine antropomorfismo, che significa «forma umana», fu utilizzato per la prima volta dal filosofo greco Senofane nel V secolo a.C., per criticare il poema di Omero in quanto descriveva gli dèi come fossero umani. Per ridicolizzare questa credenza, pare che Senofane dicesse: «Se i cavalli avessero le mani, disegnerebbero i propri dèi simili a cavalli». Oggi il termine ha assunto un significato più ampio e viene comunemente impiegato per criticare l’attribuzione agli animali di caratteristiche ed esperienze umane. Gli animali non fanno «sesso»: mettono in atto comportamenti riproduttivi. Non hanno «amici» bensì compagni preferiti di affiliazione. [...]  


L’antropomorfismo gratuito è chiaramente inutile. Tuttavia, quando ricercatori esperti sul campo che seguono le scimmie nella foresta tropicale mi raccontano di scimpanzé che mostrano preoccupazione per una compagna ferita, portandole cibo o rallentando il passo, oppure mi riferiscono di come i maschi di orangotango dai rami più alti annunciano vocalizzando in che direzione intendono viaggiare la mattina successiva, non mi oppongo a congetture riguardo l’empatia o la pianificazione. Sulla base di quanto sappiamo grazie agli esperimenti controllati in cattività, come quelli che io stesso conduco, queste ipotesi non sono affatto inverosimili.  

Per capire l’ostilità verso le spiegazioni di carattere cognitivo devo ricorrere a un terzo protagonista dell’antica Grecia: Aristotele. Il grande filosofo aveva collocato tutte le creature viventi in una scala verticale, la Scala Naturae: dagli uomini, più vicini agli dèi, si scendeva agli altri mammiferi, sino a uccelli, pesci, insetti e molluschi. Fare paragoni su e giù attraverso questa ampia scala è un passatempo scientifico molto popolare ma tutto ciò che abbiamo imparato da tali confronti è come misurare le altre specie secondo i nostri standard. L’obiettivo è sempre stato mantenere intatta la scala di Aristotele, con gli uomini in cima. 

I «pozzi magici»  
Pensiamoci: quanto è verosimile che l’immensa ricchezza della natura risieda in una singola dimensione? Non è più probabile che ogni animale abbia la propria cognizione, adattata ai suoi sensi e alla sua storia naturale? È illogico paragonare la nostra capacità cognitiva con quella distribuita su otto arti che si muovono ciascuno in modo indipendente e con una propria fonte neurale, oppure con una che consente ad un organismo volante di catturare una preda in movimento raccogliendo gli echi dei suoi versi. Le nocciolaie di Clark (appartenenti alla famiglia dei corvidi) rammentano la collocazione di migliaia di semi nascosti sei mesi prima, mentre io spesso non riesco a ricordare dove ho parcheggiato qualche ora fa. Chiunque conosca gli animali può trovare diversi altri confronti cognitivi che non sono proprio a nostro favore. Invece di una scala, siamo di fronte a un enorme pluralità di cognizioni con numerosi picchi di specializzazione. Paradossalmente questi vertici sono stati chiamati «pozzi magici» perché più gli scienziati apprendono su di essi più profondo diventa il mistero. [...] 

Torniamo ora all’accusa di antropomorfismo che viene riproposta a ogni nuova scoperta: funziona solo grazie alla premessa dell’eccezionalità umana. Radicata nella religione ma ramificata in ampi settori della scienza, tale premessa non è in linea con la moderna biologia evoluzionistica e con le neuroscienze. I nostri cervelli condividono con gli altri mammiferi la medesima struttura di base: non ci sono parti diverse, solo gli stessi vecchi neurotrasmettitori.  

I cervelli di fatto sono così simili universalmente che per curare le fobie umane studiamo la paura nell’amigdala dei ratti. Ciò non significa che la pianificazione fatta da un orangotango sia dello stesso ordine della mia quando in classe annuncio un esame e i miei studenti ci si preparano, ma in fondo vi è una continuità fra entrambi i processi. E questo vale ancor più per i tratti emotivi. [...] 

Il punto cruciale è che l’antropomorfismo non è assolutamente così deleterio come si pensa: con specie come le scimmie - appropriatamente note anche come «umanoidi» - l’antropomorfismo è in realtà una scelta logica. Dopo una vita passata a studiare scimpanzé, bonobi e altri primati, sono convinto che negare le somiglianze sia ormai più difficile che accettarle. Rinominare il bacio di uno scimpanzé «contatto bocca a bocca» offusca il significato di un comportamento che le scimmie mettono in atto nelle stesse circostanze degli uomini, ad esempio quando si salutano o si riconciliano dopo una lite. Sarebbe come assegnare alla gravità della Terra un nome diverso rispetto a quella della Luna solo perché riteniamo che la Terra sia speciale.  

«E perché no?»  
Barriere linguistiche ingiustificate come queste frammentano l’unità con la quale la natura ci si presenta: le scimmie e gli esseri umani non hanno avuto sufficiente tempo per sviluppare indipendentemente le une dagli altri comportamenti quasi identici in situazioni analoghe. Considerate questo la prossima volta che leggerete di una scimmia che fa progetti, dell’empatia di un cane o dell’autocoscienza di un elefante. Invece di negare o ridicolizzare questi fenomeni, fareste meglio a domandarvi: «e perché no?».  

Una delle ragioni per cui questo dibattito è tanto infuocato riguarda le sue implicazioni morali. Quando i nostri antenati sono passati dalla caccia all’agricoltura hanno perso il rispetto per gli animali iniziando a considerarsi signori della natura. Per giustificare il modo in cui trattavano le altre specie ne hanno minimizzato l’intelligenza e negato che avessero un’anima. È impossibile invertire questa tendenza senza sollevare interrogativi sugli atteggiamenti e le pratiche dell’uomo. Il processo tuttavia è in corso e possiamo vederne gli effetti nella fine della ricerca biomedica sugli scimpanzé o nell’opposizione all’uso delle orche nei parchi divertimento.  

Un rinnovato e accresciuto rispetto nei confronti dell’intelligenza animale ha conseguenze anche per la scienza cognitiva: troppo a lungo abbiamo lasciato l’intelletto umano sospeso in uno spazio evolutivo vuoto. Come avrebbe fatto la nostra specie a giungere alla pianificazione, all’empatia, alla consapevolezza e via dicendo, se siamo parte di un mondo naturale privo di qualunque trampolino, passaggio, verso tali capacità? Una cosa del genere non sarebbe improbabile quanto il nostro essere gli unici primati con le ali?  

L’evoluzione è un processo graduale di generazione e modificazione, di tratti fisici e mentali. Più minimizziamo l’intelligenza animale più chiediamo alla scienza di credere nei miracoli, quando si tratta di spiegare le origini e il funzionamento della mente umana. Invece di insistere sulla nostra superiorità in tutti i campi sarebbe ora di essere orgogliosi delle nostre connessioni con le altre specie.  

Non c’è niente di male nel riconoscere che siamo scimmie - forse particolarmente intelligenti, ma nondimeno scimmie. Come amante di queste creature non considero affatto offensivo un paragone del genere. Siamo dotati delle capacità mentali e dell’immaginazione necessarie per comprendere in profondità le altre specie: più avremo successo in quest’impresa più ci renderemo conto di non essere l’unica forma di vita intelligente sul pianeta.  

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