giovedì 23 luglio 2015

CINEMA E SOCIETA'. CINA. M. MONTINARI, La Cina travolta dal noir, IL MANIFESTO, 23 luglio 2015

Orso d’Oro alla Ber­li­nale 2014, Fuo­chi d’artificio in pieno giorno (titolo fedele all’originale cinese, men­tre in inglese è stato tra­dotto con Black Coal, Thin Ice), scritto e diretto da Diao Yinan, è il clas­sico poli­zie­sco che ci si aspet­te­rebbe pro­dotto a Hong Kong e che, invece, arriva dalla Cina. Il regi­sta, in que­sto caso, ha scelto la via più com­mer­ciale, met­tendo da parte quella più auto­riale che, para­dos­sal­mente, gli aveva frut­tato premi meno impor­tanti dell’Orso d’Oro, a detta di molti strap­pato ingiu­sta­mente dalle mani di Richard Lin­kla­ter che, nell’edizione 2014, con­cor­reva con l’acclamato Boy­hood.


In effetti, un certo qual stu­pore lo si prova di fronte a un ver­detto del genere, ma le giu­rie dei Festi­val sono fatte così, scon­tate quando si pre­tende la sor­presa, desta­bi­liz­zanti quando si vor­rebbe il con­forto dell’ovvio.
Il film oltre a cer­care di divin­co­larsi dalle maglie strette dell’autorialità, si smarca anche dalla presa fatale della cen­sura. E accade subito. Siamo nel 1999, un cada­vere fatto a pezzi è rin­ve­nuto in una miniera di car­bone. E ce ne sono altri di cada­veri e di pezzi. Una sgan­ghe­rata squa­dra di poli­zia indaga fino ad arri­vare a fer­mare due sospetti in un salone di bel­lezza. La dab­be­nag­gine degli agenti porta a un con­flitto a fuoco, dove muo­iono due poli­ziotti. A sal­varsi è il pro­ta­go­ni­sta, Zhang Zili, che ritro­viamo cin­que anni dopo nelle vesti di una guar­dia di sicu­rezza in una fabbrica.
Tolti i panni del poli­ziotto, Zhang si tra­sforma in un per­so­nag­gio all’apparenza più mode­sto, desti­nato a non col­pire l’attenzione dei cen­sori cinesi, e forse nem­meno l’immaginario di uno spet­ta­tore in cerca di un altro figlio di Chand­ler. Zhang può tran­quil­la­mente agire fuori dalle regole, come scritto nel manuale del noir, senza offen­dere l’onore di un corpo di poli­zia che resta inte­gro anche se povero di ele­menti bril­lanti (la sem­pli­cità con la quale gli agenti sono uccisi sem­bra deno­tare una qual­che lacuna nella loro formazione!).
Divor­ziato, ma que­sto era acca­duto prima del tra­gico con­flitto a fuoco, alco­liz­zato, soli­ta­rio e poco incline a seguire le regole, Zhang sem­bra pos­se­dere tutti gli ingre­dienti richie­sti quando si pre­para il pro­ta­go­ni­sta di un rac­conto noir. In realtà, da un per­so­nag­gio come Zhang ci si aspet­te­rebbe qual­cosa di più che una sbronza o un amplesso rude.
E l’impressione è che lungo il tra­gitto il regi­sta sia stato colto da nau­sea e rigur­giti di auto­ria­lità tali da farlo oscil­lare con­ti­nua­mente tra un cosid­detto rac­conto alto e uno popo­lare, senza con ciò intra­pren­dere un per­corso per­so­nale e ori­gi­nale. Ad ogni modo, diven­tato un agente di sicu­rezza, Zhang rien­tra in gioco nel caso dei cada­veri fatti a pezzi. Incon­tra un suo ex col­lega durante un appo­sta­mento. Sta seguendo una donna che è col­le­gata alle vit­time di ieri e di oggi, per­ché nel frat­tempo il kil­ler con­ti­nua a ucci­dere e amputare.
Orso d’Oro alla Ber­li­nale 2014, Fuo­chi d’artificio in pieno giorno (titolo fedele all’originale cinese, men­tre in inglese è stato tra­dotto con Black Coal, Thin Ice), scritto e diretto da Diao Yinan, è il clas­sico poli­zie­sco che ci si aspet­te­rebbe pro­dotto a Hong Kong e che, invece, arriva dalla Cina. Il regi­sta, in que­sto caso, ha scelto la via più com­mer­ciale, met­tendo da parte quella più auto­riale che, para­dos­sal­mente, gli aveva frut­tato premi meno impor­tanti dell’Orso d’Oro, a detta di molti strap­pato ingiu­sta­mente dalle mani di Richard Lin­kla­ter che, nell’edizione 2014, con­cor­reva con l’acclamato Boy­hood.
In effetti, un certo qual stu­pore lo si prova di fronte a un ver­detto del genere, ma le giu­rie dei Festi­val sono fatte così, scon­tate quando si pre­tende la sor­presa, desta­bi­liz­zanti quando si vor­rebbe il con­forto dell’ovvio.
Il film oltre a cer­care di divin­co­larsi dalle maglie strette dell’autorialità, si smarca anche dalla presa fatale della cen­sura. E accade subito. Siamo nel 1999, un cada­vere fatto a pezzi è rin­ve­nuto in una miniera di car­bone. E ce ne sono altri di cada­veri e di pezzi. Una sgan­ghe­rata squa­dra di poli­zia indaga fino ad arri­vare a fer­mare due sospetti in un salone di bel­lezza. La dab­be­nag­gine degli agenti porta a un con­flitto a fuoco, dove muo­iono due poli­ziotti. A sal­varsi è il pro­ta­go­ni­sta, Zhang Zili, che ritro­viamo cin­que anni dopo nelle vesti di una guar­dia di sicu­rezza in una fabbrica.
Tolti i panni del poli­ziotto, Zhang si tra­sforma in un per­so­nag­gio all’apparenza più mode­sto, desti­nato a non col­pire l’attenzione dei cen­sori cinesi, e forse nem­meno l’immaginario di uno spet­ta­tore in cerca di un altro figlio di Chand­ler. Zhang può tran­quil­la­mente agire fuori dalle regole, come scritto nel manuale del noir, senza offen­dere l’onore di un corpo di poli­zia che resta inte­gro anche se povero di ele­menti bril­lanti (la sem­pli­cità con la quale gli agenti sono uccisi sem­bra deno­tare una qual­che lacuna nella loro formazione!).
Divor­ziato, ma que­sto era acca­duto prima del tra­gico con­flitto a fuoco, alco­liz­zato, soli­ta­rio e poco incline a seguire le regole, Zhang sem­bra pos­se­dere tutti gli ingre­dienti richie­sti quando si pre­para il pro­ta­go­ni­sta di un rac­conto noir. In realtà, da un per­so­nag­gio come Zhang ci si aspet­te­rebbe qual­cosa di più che una sbronza o un amplesso rude.
E l’impressione è che lungo il tra­gitto il regi­sta sia stato colto da nau­sea e rigur­giti di auto­ria­lità tali da farlo oscil­lare con­ti­nua­mente tra un cosid­detto rac­conto alto e uno popo­lare, senza con ciò intra­pren­dere un per­corso per­so­nale e ori­gi­nale. Ad ogni modo, diven­tato un agente di sicu­rezza, Zhang rien­tra in gioco nel caso dei cada­veri fatti a pezzi. Incon­tra un suo ex col­lega durante un appo­sta­mento. Sta seguendo una donna che è col­le­gata alle vit­time di ieri e di oggi, per­ché nel frat­tempo il kil­ler con­ti­nua a ucci­dere e amputare.

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