martedì 2 giugno 2015

CINEMA E SOCIETA'. D. FERRARIO, Il cinema neorealista è un po' meno realista, LA LETTURA, 2015

Stupisce il fatto che quando uscì Quarto potere se ne parlò (male) soprattutto per il contenuto. Colpì i contemporanei il fatto che Orson Welles avesse girato un film su William Randolph Hearst, il Rupert Murdoch dell’epoca (d’altra parte anche da noi i vari film documentari o di finzione usciti in questi anni su Berlusconi non sono stati mai considerati nel loro aspetto specifico, cioè come film). Ma oggi appare a tutti evidente che il capolavoro di Welles lo si guarda e lo si giudica per come è fatto, non tanto per la storia che racconta. Qualcosa del genere è accaduto anche al neorealismo italiano. Sostanzialmente ignorato dal pubblico in patria — molto più interessato ai film hollywoodiani che finalmente si potevano vedere dopo anni di autarchia cinematografica — divenne un caso mondiale per il ritratto duro e sincero che dava dell’Italia della guerra e del Dopoguerra. Così sincero da far arrabbiare un giovane Giulio Andreotti, allora sottosegretario con delega allo Spettacolo, il quale lottò con tutte le sue forze contro l’immagine del Paese trasmessa dai film di Rossellini, De Sica, Visconti. La Dc voleva comunicare un ritratto positivo dell’Italia e i potenti ritenevano che film girati per strada, tra le macerie, con al centro la miseria, la prostituzione, i bambini sbandati, il disagio sociale nuocessero al nostro buon nome. Per Andreotti un film come Umberto D. rendeva «un pessimo servigio alla Patria».


Questa polarizzazione sul «cosa» ha fatto spesso passare in secondo piano il «come». Il cinema neorealista si è ipostatizzato in un mito fissato per sempre su alcuni canoni indiscutibili derivati dal suo imprescindibile ruolo nella storia del cinema mondiale. Ma varrebbe la pena riscoprire quei capolavori sotto un’altra luce. Prova a farlo una mostra che aprirà presto al sempre meraviglioso Museo del Cinema di Torino, intitolata Cinema neorealista. Lo splendore del vero nell’Italia del Dopoguerra. Leggendo e guardando le fotografie, i montaggi, i documenti esposti lungo la passerella che si snoda dentro la spettacolare aula del tempio nella Mole Antonelliana, ci si possono porre interessanti interrogativi sul rapporto tra cinema e realtà.
Tanto per cominciare: quanto è «vero» un cinema basato per metà su una finzione evidente? Gli attori di Ladri di biciclette e di molti altri film furono presi dalla strada, certo. Anzi, questo divenne quasi un brand del neorealismo. Ma, dato che la presa diretta era praticamente impossibile per motivi tecnici, gli stessi attori sono tutti doppiati in studio e nei film non parlano con la loro voce. Un realismo mediato dalla tecnica, dunque: secondo un principio che negli anni avrebbe portato al Fellini che faceva dire ai suoi indimenticabili personaggi «Uno due tre quattro…», perché tanto poi le battute vere le avrebbe fatte registrare ai doppiatori. Sul piano sonoro un altro elemento che ha un effetto curioso è la musica. Le colonne sonore del neorealismo sono quanto di più sentimentalmente retorico si possa immaginare, sia dal punto di vista compositivo che dell’arrangiamento orchestrale. Sono fatte per sottolineare un effetto, per strappare un’emozione da scena madre.
Anche l’aspetto documentario, la rappresentazione della realtà che appare così «reale» (e che irritava Andreotti) è un’idea da prendere con le pinze. Molti ricordano la scena di apertura di La terra trema, che descrive il malinconico ritorno a casa dei pescatori dopo una notte in mare: il «totale» della fila di barche, la teoria di luci tremolanti stagliate sul controluce del faraglione e dell’acqua. Ovvio pensare che Visconti — in un film così radicalmente «realista» — l’abbia rubata una mattina all’alba. Niente affatto. Viene esposto un disegno del regista in cui la posizione e il movimento di ogni barca è accuratamente indicato e programmato per ottenere l’effetto voluto.
Attenzione: non sto cercando di sminuire l’importanza del neorealismo. Proprio il contrario. Proprio perché faccio il regista penso che sia importante poter dimostrare quanta preparazione, quanta accuratezza, quanta progettualità visiva veniva investita in film che poi sembrano così semplici e naturali. Perché è esattamente quello lo spazio dove un autore dimostra di essere tale.
D’altra parte, ne erano ben consapevoli gli stessi registi. Su un pannello campeggia questa citazione di Giuseppe De Santis, il teorico più lucido del movimento: «La mia posizione sul realismo implica una trasfigurazione della realtà. L’arte non è la riproduzione meccanica di semplici documenti. Accontentandosi di piazzare la macchina da presa nella strada o fra i muri non si può pervenire che a un realismo del tutto esteriore. Secondo me il realismo non esclude affatto una finzione, né tutti i mezzi classicamente cinematografici».
In mostra c’è anche una lettera di Vittorio De Sica, scritta in risposta a una di Silvio D’Amico che gli chiedeva come faceva a ottenere risultati così straordinari dai bambini che erano spesso protagonisti dei suoi film. Subito De Sica fa una premessa: «In fatto di recitazione, nel cinema i peggiori sono gli attori di teatro, i migliori sono gli uomini della strada, gli ottimi i bambini». Perché? Perché, dice il grande Vittorio, gli attori di teatro, tra cui lui stesso, «sono abituati a recitare sempre in “campo lungo”». E, alla domanda specifica di D’Amico, il regista di I bambini ci guardano illustra una illuminante tecnica che è insieme la descrizione di un sincero rapporto umano e un abile manuale di manipolazione dei minori.
Insomma, il neorealismo fu un movimento straordinario non solo perché tolse il cinema dai velluti stantii degli studi e lo portò nella ruvida polvere delle strade, ma perché nel farlo i suoi registi si portarono dietro la fortissima consapevolezza che se volevi mostrare la realtà dovevi farlo con le tecniche della finzione. In definitiva, allora come oggi, «lo splendore del vero» non può che basarsi su una messa in scena.

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