domenica 3 maggio 2015

LA RISCOPERTA DELLA MADRE. M. MANCUSO, Le madri antiche, LA LETTURA

Mia madre è morta nel momento in cui nascevo, così per tutta la mia vita non c’è mai stato nulla tra me e l’eternità». Splendida e folgorante, la frase che apreAutobiografia di mia madre incanta il lettore già curioso per la stranezza del titolo (il Novecento ha minato anche i generi letterari più solidi, come precedente esisteAutobiografia di Alice Toklas, a firma Gertrude Stein). La dobbiamo a Jamaica Kincaid, nome da scrittrice di Elaine Cynthia Potter Richardson, giamaicana di nascita e newyorkese d’adozione. Negli Stati Uniti era arrivata sedicenne come ragazza alla pari.



Perfetta cornice per inquadrare i romanzi, i film, i saggi, le mostre che alla madre — alla sua scomparsa fisica e alla sua permanenza come figura di riferimento nell’universo affettivo — sono dedicati. A cominciare dall’ultima pellicola diretta da Nanni Moretti, Mia madre, nelle sale e in concorso al prossimo Festival di Cannes. Secondo titolo del regista che già aveva raccontato un lutto in La stanza del figlio, Palma d’oro nel 2001.
Perdita immaginaria allora, perdita reale oggi: la madre di Moretti (Agata Apicella, da qui il nome del personaggio Michele Apicella, controfigura cinematografica del regista e delle sue fissazioni) è morta durante le riprese di Habemus Papam. L’attrice Giulia Lazzarini sullo schermo ne eredita l’amore per il latino, nel soggetto firmato con Gaia Manzini, Chiara Valerio, Valia Santella. L’ironia morettiana si spegne nel dolore e nello spaesamento: «E adesso a me chi ci pensa?», lamentava già don Giulio in La messa è finita, vegliando la madre suicida.
Qualche mese fa è uscito in Italia Mommy (premio speciale della giuria l’anno scorso a Cannes, spartito con Jean- Luc Godard), opera quinta — girata a 25 anni — del geniale regista canadese Xavier Dolan. Già il suo primo film, J’ai tué ma mère («Ho ucciso mia madre»), raccontava un sedicenne in conflitto con la madre: per liberarsene, almeno nella fantasia, finge con la maestra di essere orfano. L’ultimo, ambientato in un Canada prossimo venturo, è un alternarsi di litigi e di tenerezze tra un altro adolescente — violento e incendiario — e una madre che lo educa a casa. Padri, non se ne vedono. Raddoppia l’amore materno. Fa da cuscinetto, quando le cose si mettono male, una vicina di casa balbuziente.
Autobiografico — anche se raccontato in terza persona, per raffreddare la materia incandescente senza sottrarre al lettore i dettagli crudeli e imbarazzanti — è il dolore di Mattia in L’invenzione della madre di Marco Peano (minimum fax). La lunga malattia, il funerale, la vita che stenta a ripartire quando il figlio dopo essere stato badante assieme al padre si ritrova orfano (in un’età più consona del Moretti sessantenne: ha 26 anni, studi di cinema, un lavoro come commesso in un negozio di videocassette).
Il romanzo del trentacinquenne Marco Peano si apre con una citazione di Donald Antrim tratta da La vita dopo: a cinque anni dalla morte per alcol e tabacco, lo scrittore progetta «La storia di mia madre e di me, di mia madre in me. Sarà questa storia a permettermi di non perderla». Riesce a farlo solo divagando: come inizio della sua nuova vita, l’acquisto di un letto gigantesco. Reese Witherspoon, nel film Wild di Jean-Marc Vallée, morta la madre, parte invece per una lunga marcia: le mille miglia del Pacific Crest Trail, tra il confine messicano e l’Oregon.
Un altro maschio devastato in età più che adulta dalla scomparsa della madre — oltre all’affetto, conta l’eternità evocata da Jamaica Kincaid, quasi a dire «il prossimo sarai tu» — è Roland Barthes in Dove lei non è. Un diario in cui il semiologo di Miti d’oggi e Frammenti di un discorso amoroso rinuncia al collage di citazioni per affidarsi «alla banalità che è in me». A poco servono in questo rito di passaggio le stratificazioni culturali e le esperienze altrui: «Il primo orfano del mondo» è un azzeccato titoletto in L’invenzione della madre.
Ferdinando Camon nel 1978 scrive (e vince il Premio Strega) con Un’altare per la madre: «Di questo mio essere vivente faceva parte anche mia madre, doveva farne parte per sempre, io vorrei pregarla di smettere di morire». Dino Buzzati, nel racconto I due autisti, cerca di immaginare le ultime parole, pronunciate dai guidatori del carro funebre, ascoltate dalla madre durante l’ultimo viaggio verso il cimitero di Belluno, mentre il figlio si strugge per averla trascurata durante la malattia.
Malattie che oggi si prolungano nel tempo, in uno stillicidio prima sconosciuto. Nel suo saggio Storia della morte in Occidente, uscito nel 1975, Philippe Ariès insisteva sulla rimozione e l’occultamento: si moriva fuori scena. Andrebbe aggiornato: l’Alzheimer ci fa diventare genitori dei nostri genitori, che vanno accuditi come bambini e regrediscono all’infanzia. Spesso in casa, da badanti che hanno i loro figli lontani.
La prospettiva è devastante, quando a esserne colpita è nostra madre. Ma nello stesso tempo fornisce la materia per un romanzo di formazione ritardato: non più passaggio dall’adolescenza all’età adulta, il romanzo di formazione appunto, ma reinvenzione dell’età adulta, con prove da superare e relazioni da ripensare verso i propri genitori. Troviamo mamme che piano piano svaniscono, nel corpo e nella mente, al centro di molti appassionanti e riusciti debutti letterari. A partire da Dave Eggers, L’opera struggente di un formidabile genio, uscito nel 2000: due genitori morti di cancro (straziante l’agonia della madre), il fratello maggiore Dave che si prende cura del piccolo Toph, e cova rancore per l’abbandono. Stefan Merrill Block racconta in Io non ricordo la madre sperduta nel limbo dell’Alzheimer. In Italia abbiamo Donatella Di Pietrantonio, con Mia madre è un fiume: un rapporto tra madre e figlia «andato storto da subito» — questa la premessa — ribaltato ai primi sintomi della malattia. Raccontami la tua vita, chiede la figlia-badante, tentando di ricuperare i ricordi che svaniscono. Non era un debutto Cuore di mamma di Rosa Matteucci, notevole per la crudeltà e l’assenza di retorica, e di nuovo alla madre sarà dedicato il prossimo romanzo della scrittrice, ancora senza titolo.
Altri romanzi sono in arrivo sul fronte del rapporto tra madri e figlie, complicato anche senza tragedie. La domanda «In cosa somigli a tua madre?» mette i brividi, alle adolescenti come alle adulte: coraggiosa la regista Fabiana Sargentini ad averla scelta qualche anno fa come filo conduttore del documentario Di madre in figlia. Da e/o sta per uscire Ma già prima di giugno di Patrizia Rinaldi: una madre profuga da Spalato, una figlia che ha vissuto una vita meno avventurosa, ora costretta a letto per l’età avanzata. Da Rizzoli, è in arrivo a fine maggio Passerà anche questa di Milena Busquets, romanzo-confessione venduto in 27 Paesi e già bestseller in Spagna: ha per titolo la frase che i saggi, in una favola cinese, suggeriscono all’imperatore come adatta a ogni circostanza, dolorosa o felice. Da Garzanti, l’ultimo romanzo di Vanessa Diffenbaugh, tra pochi giorni in libreria, racconta una madre che abbandona i figli, per il terrore di non essere brava abbastanza.
Sposta l’attenzione sulle madri anche Massimo Recalcati, che finora aveva illustrato l’altra metà della coppia genitoriale in Cosa resta del padre e Il complesso di Telemaco. Un suo intervento sulla madre-coccodrillo e la madre-narciso con strascico di polemiche ha anticipato Le mani della madre. Desiderio, fantasmi ed eredità del materno (Feltrinelli, in libreria il 6 maggio). Il titolo ricorda la poesia di Rilke, per un saggio sulle mani che curano e che a volte aggrediscono.
Una serie di mostre arricchisce il panorama. A Palazzo del Governatore di Parma è aperta dall’8 marzo (chiuderà il 28 giugno) Mater. Percorsi simbolici sulla maternità: dalle cosmogonie e dalle dee madri — passando per l’iconografia cristiana, le nutrici e gli interni borghesi — arriva fino a Bill Viola. Focalizzata sul Novecento è invece la mostra che si inaugura il prossimo 25 agosto a Palazzo Reale di Milano. Promossa dal Comune, ideata e progettata dalla Fondazione Trussardi, curata da Massimiliano Gioni, La Grande Madrepropone cento opere di artisti internazionali. Per celebrare il secolo dell’emancipazione e della diversità orgogliosamente rivendicata. Il secolo delle cattive ragazze e della maternità per scelta. Il secolo che ha visto le avanguardie storiche e la rivisitazione delle figure ancestrali. Come le statuette di terracotta dai fianchi e dal didietro imponente che appaiono nei titoli di testa dell’ultimo film diretto dal regista spagnolo Álex de la Iglesia, nelle sale dal 30 aprile con il titolo Le streghe son tornate.

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