domenica 31 maggio 2015

CINEMA E SOCIETA' ITALIANA. G. VICINELLI, Maresco, «il digitale ha ucciso un’idea di cinema», IL MANIFESTO, 30 maggio 2015

La barba è lunga, intes­suta di fili d’argento, la voce è quella incon­fon­di­bile che ai tempi di Cinico Tv apo­stro­fava Filan­geri e i fra­telli Abbate da un fuo­ri­campo inde­ci­fra­bile, segno tan­gi­bile della morte di una certa idea di cinema. Franco Mare­sco risponde alle mie domande flem­ma­ti­ca­mente, dan­dosi il tempo di sop­pe­sare le parole, rispo­ste arti­co­late e urgenti. Ini­ziamo par­lando di Bel­lu­scone, Una Sto­ria Siciliana.


Bel­lu­scone: Un film incom­piuto, un regi­sta scom­parso, un’inchiesta a sfondo poli­tico incon­clusa, un docu­men­ta­rio sui neo melo­dici rima­sto in sospeso.…forse uno dei temi del film è pro­prio il suo stesso fallimento?
L’ho già detto in altre occa­sioni, il tema di que­sto film, che è il tema a me forse più caro, è pro­prio quello dei fal­liti e degli scon­fitti, dei vinti, più in gene­rale, direi, il tema del fal­li­mento. Si tratta del com­pi­mento di una spe­cie di tri­lo­gia ini­ziata con Il Ritorno Di Caglio­stro e pro­se­guita con Io Sono Tony Scott, dedi­cato a un grande jaz­zi­sta siculo-americano, che si con­clude ideal­mente, appunto, con que­sto film, in cui il sog­getto prin­ci­pale è pro­prio il fallimento.
Il bianco e nero, sin dai tempi dei lavori con Ciprì, ha defi­nito una diversa dimen­sione dell’esistere, quel luogo imma­gi­na­rio e reale al con­tempo in cui in cui vivono i per­so­naggi deva­stati di Cinico Tv. Cic­cio Mira, sem­pre ritratto in bianco e nero, quindi forse per lei può essere con­si­de­rato una sorta di «cugino» dei per­so­naggi di Cinico Tv.
Cic­cio Mira era già apparso in Lo Zio Di Broo­klin, in cui suo­nava la chi­tarra e can­tava «Chella Llà», momento cen­trale del film, quindi era già den­tro l’universo dei miei\nostri film, in più lo ave­vamo incro­ciato in diverse altre occa­sioni. Que­sto bianco e nero che lo separa da tutto il resto, è un ten­ta­tivo di rita­gliare una dimen­sione, ovvia­mente del tutto illu­so­ria, in cui col­lo­care que­sto per­so­nag­gio con­no­ta­bile come filo-mafioso, apo­lo­geta di cosa nostra, ma irre­si­sti­bil­mente sim­pa­tico e che, a conti fatti, è un uomo vero den­tro una realtà a colori che ha ormai il colore della deriva, il colore dell’imbarbarimento defi­ni­tivo. Qual­cuno ha detto, ed è vero, che io non ho mai amato i miei per­so­naggi, tranne Cic­cio Mira, che mi ha dato gli unici momenti diver­tenti durante le riprese, per­ché per il resto mi sono ritro­vato di fronte a una realtà a me già nota, ma a dir poco agghiac­ciante. Cinico Tv è stato l’anticipazione di que­sta realtà, la pro­fe­zia di una apo­ca­lisse che sarebbe arri­vata e un com­miato dolo­roso a un mondo, quello di prima, che è spa­rito per sem­pre. E Cic­cio Mira è una scheg­gia di que­sto pas­sato, di un mondo in cui non ci sono guar­die e ladri, eroi o anti-eroi, un altro mondo, ancora retto, ma solo secondo Cic­cio, da una sorta di «codice caval­le­re­sco», che cer­ta­mente è meno peg­gio di tutto quello che è venuto dopo, per­ché nes­suna disto­pia si era spinta sino a pre­ve­dere tanto orrore.
Sto­ri­ca­mente la scelta del bianco e nero risale ad anni in cui io e Ciprì vole­vamo evi­tare i brut­tis­simi colori che si otte­ne­vano con il nastro magne­tico, di una brut­tezza unica.
Adesso la brut­tezza vera sta nel digi­tale, che ha ammaz­zato com­ple­ta­mente il cinema per­ché la pel­li­cola era fatta di chi­mica, di mate­ria, impo­neva una distanza rispetto all’immagine e a quello che sta al di là dell’immagine, una distanza neces­sa­ria, che il digi­tale ha com­ple­ta­mente eli­mi­nato sot­traendo al cinema la dimen­sione del mistero.
Io appar­tengo a una gene­ra­zione per cui il rap­porto con le imma­gini era molto diverso da ora. La pos­si­bi­lità stessa di poter vedere un certo film era un’esperienza unica, che non sapevi se e quando si sarebbe potuta ripe­tere, men­tre con la rete e i sup­porti digi­tali c’è la pos­si­bi­lità di vedere quello che si vuole e quando lo si vuole, di stu­diarlo, di ana­liz­zarlo ecce­tera. Nei pri­mis­simi anni ottanta feci parte del cine­club «Nuovo Bran­cac­cio», creato da gio­vani con­te­sta­tari e con­te­sta­tori del Pci nel quar­tiere Bran­cac­cio, patria delle fami­glie Paro­lisi e Gra­viano: dove­vamo por­tare «le pizze» dalle cine­te­che come la Tor­to­lina, ormai spa­rite e sma­nia­vamo per poter vedere, nean­che sem­pre per intero, un Erich von Stro­heim o le novità del cinema tede­sco, ricordo Nick’s Movie di Wen­ders, con il suo Nico­las Ray morente. E dopo la visione crea­vamo una vera e pro­pria mito­lo­gia del film, mille discorsi, inter­pre­ta­zioni e dibat­titi, che occu­pa­vano serate intere. In que­sto senso il cinema era un mistero, un puro desi­de­rio. Oggi tutta que­sta sovrae­spo­si­zione, que­sto tirare fuori con­ti­nua­mente i makin’off, il far uscire tutta la fil­mo­gra­fia di un tizio in una volta, il poter vedere qua­ranta cin­quanta film all’anno, tutto que­sto ha tolto il desi­de­rio al cinema. Una volta c’era il tempo, le cose, cioè, si svol­ge­vano in un tempo det­tato dalle cose stesse, c’era un oriz­zonte diverso e credo che que­sto avere tutto e aver­celo quando si vuole abbia ucciso il mistero. Il digi­tale, con la sua imme­dia­tezza, ha ucciso un’idea di cinema. Non dico che abbia ucciso «il» cinema in asso­luto, ma di sicuro una certa idea di cinema, per cui il cinema era un fatto stre­go­ne­sco, come era stata in pas­sato la foto­gra­fia: era alchi­mia, era chi­mica, era fisica, era qual­cosa di eli­ta­rio. In più se oggi fai un film in pel­li­cola poi te lo lavo­rano quelli che non hanno più l’arte, che lavo­rano in digi­tale e che non sanno più come trat­tare la pel­li­cola. Una volta l’operatore era un mago, era uno stre­gone, Joseph August o Gregg Toland gira­vano senza nean­che guar­dare nel mirino della mac­china, poi quando anda­vano a vedere i gior­na­lieri, erano già dei capo­la­vori. Die­tro c’era l’apprendistato sui set, un diret­tore della foto­gra­fia che tra cento, mille aspi­ranti, sce­glieva pro­prio te e poi ti inse­gnava col tempo e non ti rive­lava i suoi segreti. Cioè, era una ini­zia­zione alla vita, e que­sto si è perso, in que­sto senso è finita, ed è finita un’idea di cinema. Berg­man disse «il cinema come noi lo abbiamo imma­gi­nato è finito», ed è que­sto che è acca­duto.
Que­sto c’è in Bel­lu­scone, l’idea della fine di un cinema. Cioè il fal­li­mento di un ideale, di una idea di cinema, con il suo stu­pore. Lo stesso stu­pore che pro­vano i Fra­telli Abate in Cinico Tv, quando sco­prono che un chilo di paglia e un chilo di ferro pesano allo stesso modo, uno stu­pore vero.
E in gene­rale non solo il cinema, ma la vita di tutti noi, ha perso la capa­cità dello stupore.
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Nell’appropriazione dia­let­tale del cognome da Ber­lu­sconi a Bel­lu­scone si anni­dano vari slit­ta­menti: quello del suo film che è ini­ziato in un modo è finito in un altro, e quello dell’uomo Ber­lu­sconi, che tran­smuta nell’impalpabile crea­tura mito­lo­gica Belluscone.…
Il film ini­zial­mente voleva essere in qual­che modo com­mer­ciale, per quanto io possa imma­gi­nare un film com­mer­ciale. Era l’idea di rac­con­tare Ber­lu­sconi, quando ancora era al governo, dal punto di vista della genesi sici­liana del suo potere, che è fon­da­men­tale per capire il ber­lu­sco­ni­smo e che suc­ces­si­va­mente sarebbe stata messa in evi­denza dalla con­danna a dell’Utri. Volevo rac­con­tare di come l’impero ber­lu­sco­niano nasca attorno a tutta una Sici­lia, che è la Sici­lia di dell’Utri, ma non solo. Era un qual­cosa di più simile a quello che ha fatto poi Sabrina Guz­zanti con La Trat­ta­tiva, per­ché con­te­neva una com­po­nente sati­rica ma aveva una com­po­nente di inchie­sta molto più evi­dente. Ad un certo punto, però, mi sem­brava di fare qual­cosa che altri, gli autori di inchie­ste come Tra­va­glio e San­toro, face­vano meglio, sen­tivo che c’era qual­cosa che man­cava.
Quando ho incon­trato Cic­cio Mira, mi è venuta l’idea di rac­con­tare non più Ber­lu­sconi ma Bel­lu­scone: ecco, in que­sto scarto «alla sicula» in cui si perde una R e si rad­dop­pia la L, suc­cede come con i grandi del jazz, che gio­cano con il tempo, che spo­stano, anti­ci­pano o ritar­dano gli accenti, creando varia­zioni che cam­biano com­ple­ta­mente il senso della com­po­si­zione. Sosti­tuendo una sola let­tera nel cognome di Ber­lu­sconi cam­bia tutto il senso, cam­bia l’interpretazione e cam­bia il rac­conto.
Volevo ten­tare un approc­cio più simile a quello di Tirone in quel suo omag­gio leo­par­diano ‘a Sil­vio’, straor­di­na­rio per­ché cele­bra Ber­lu­sconi pren­den­dolo senza volerlo per il culo, e facen­done, al tempo stesso, un mito. In un mondo in cui la realtà annulla la distanza con la satira, pensa ai tele­gior­nali di Emi­lio Fede, in cui, quindi, i non-comici, gli invo­lon­ta­ria­mente cominci, rubano la scena ai comici di pro­fes­sione e tutto è desti­tuito di senso, l’unica moda­lità di rap­pre­sen­ta­zione ancora cre­di­bile era que­sto Bel­lu­scone, mediato e mitiz­zato attra­verso Cic­cio Mira, senza il quale que­sto sarebbe stato un ten­ta­tivo iden­tico a quelli già fatti.
In que­sto suo Bel­lu­scone si ride, anche parec­chio, ma si ride di sbieco, per storto, con un sapore di amaro in bocca. Mi spiega la sua idea di comico?
La mia idea di comico è un’idea molto seria, ricon­du­ci­bile a un tipo di arti­sta che al momento è spa­rito, il comico dei fra­telli Marx e Buster Kea­ton, i grandi comici ame­ri­cani o dei nostri Pep­pino e Totò, un’idea di comi­cità che si basa su un idea tra­gica dell’esistenza, l’esatto oppo­sto di quella impe­rante oggi, una comi­cità da vil­lag­gio turi­stico.
Per me il comico è l’equivalente di un filo­sofo, di un poeta, è un tra­gico, uno che ha la capa­cità di vedere la tra­ge­dia del vivere umano. Sen­ti­mento tra­gico della vita: que­sto è il comico, e aveva una sua fun­zione spe­ci­fica impor­tante in deter­mi­nati momenti della sto­ria, que­sto eroe solo con­tro il mondo, che si è persa, ragione per cui il comico in cui credo è anche un’eroe scon­fitto, appa­ren­te­mente, un mar­gi­nale, uno in con­tro­ten­denza e in ultima ana­lisi un uomo solo. Evi­den­te­mente que­sto tipo di comico è stato com­ple­ta­mente ban­dito dal sistema del cinema con­tem­po­ra­neo, in Ita­lia come altrove. Ben rari sono i casi in cui ancora si rea­lizzi un tipo di comi­cità che porta in sé que­sto sen­ti­mento del tra­gico della vita. Quando c’era una distanza tra i piani del reale il comico era un sov­ver­sivo, un dina­mi­tardo, adesso siamo tutti sullo stesso piano, quindi non c’è più niente da tra­sgre­dire, Inter­net e tutto il resto hanno fatto sì che non ci sia più biso­gno di dele­gare, tutti siamo comici tutti siamo scrit­tori, foto­grafi o regi­sti e que­sto toglie senso ai ruoli, alle identità.
*Inter­vi­sta effet­tuata a Bari nel corso del quarto appun­ta­mento di Regi­sti Fuori Dagli Sche®mi orga­niz­zata dalla rivi­sta Uzak e Apu­lia Film commission.

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