domenica 24 maggio 2015

ANTROPOLOGIA. I DANNATI DELLA METROPOLI. A. M. RIVERA, Lo spaccio dell’esistenza, IL MANIFESTO, 13 giugno 2014

Di solito non rigur­gi­tano di biblio­fili, gli ambienti leghi­sti, neo­na­zi­sti e raz­zi­sti di vario genere. Sic­ché pos­siamo spe­rare che nes­suno dei loro acco­liti s’imbatta nel libro di Andrea Staid , I dan­nati della metro­poli. Etno­gra­fie dei migranti ai con­fini della lega­lità (edi­zioni Milieu, pref. di F. La Cecla, pp. 192, euro 13,90): non ne coglie­reb­bero il senso e di sicuro lo use­reb­bero a con­ferma del vec­chio pre­giu­di­zio degli immi­grati come delin­quenti.


Oppo­sti sono, invece, ispi­ra­zione e intento di Staid, «sto­rico e antro­po­logo», com’egli stesso si defi­ni­sce, già autore, oggi poco più che tren­tenne, de Gli Arditi del popolo. La prima lotta armata con­tro il fasci­smo (La Fiac­cola, Ragusa 2007) e de Le nostre brac­cia. Metic­ciato e antro­po­lo­gia delle nuove schia­vitù (Agen­zia X, Milano 2011). In que­sto terzo lavoro egli com­pone, infatti, un’etnografia della micro-criminalità pra­ti­cata da migranti, per meglio dire della loro «uscita dal con­fine della lega­lità», cate­go­ria in cui include anche eva­sioni, pro­te­ste e rivolte nei Cie, ripor­tan­done nel terzo capi­tolo una cro­no­lo­gia ragio­nata, dal 2011 al 2013, cor­re­data da alcuni fram­menti d’interviste. Tutto ciò al fine di mostrare, attra­verso un ricco reper­to­rio di testi­mo­nianze e sto­rie di vita - frutto di una ricerca di campo con­dotta col metodo dell’osservazione par­te­ci­pante - quanto labile sia il con­fine tra pra­ti­che legali e ille­gali, quanto arduo il giu­di­zio morale, se è vero che con­tro i migranti lo Stato eser­cita quo­ti­dia­na­mente forme d’illegalità for­male e sostan­ziale, e spesso li con­danna all’esclusione civile e sociale. Se a ciò si aggiun­gono i pro­cessi sociali di mar­gi­na­liz­za­zione, infe­rio­riz­za­zione e raz­zia­liz­za­zione, si può dire che la loro devianza è, in fondo, pro­fe­zia che si autoav­vera. Una pro­fe­zia che si annun­cia fin dal momento in cui si parte avven­tu­ro­sa­mente da «clan­de­stini» per finire in qual­che lager più o meno orrendo e, tal­volta, per­fino in car­cere. Ed è per­ciò che Staid dedica al viag­gio e al car­cere rispet­ti­va­mente il secondo e il quarto capi­tolo, ugual­mente basati su testi­mo­nianze e sto­rie di vita.
Coe­rente con l’orientamento anar­chico dell’autore è la tesi di fondo: nelle con­di­zioni attuali, delin­quere per poter vivere con un minimo d’agio «sem­bra la scelta più razio­nale», poi­ché «il rischio di finire in car­cere è lo stesso sia per chi decide di delin­quere sia per chi invece decide di lavo­rare per un sala­rio da fame». Molti degli inter­vi­stati, argo­menta Staid, «hanno scelto razio­nal­mente di ribel­larsi, eva­dere, delin­quere per sot­trarsi agli abusi che il sistema capi­ta­li­stico eser­cita nei con­fronti delle fasce mar­gi­nali della forza lavoro (…) for­mate dai migranti senza per­messo di sog­giorno, ovvero i nuovi schiavi dell’economia neo-libe­rale del nuovo mil­len­nio». È una posi­zione, la sua, che si pone sulla scia di quelle teo­rie radi­cali della devianza che, affer­ma­tesi alla fine degli anni ’60, inse­ri­vano la dia­let­tica devianza/controllo nel con­te­sto dell’ordine sociale capi­ta­li­sta e con­si­de­ra­vano i com­por­ta­menti devianti come razio­nali, signi­fi­ca­tivi, impli­ci­ta­mente poli­tici.
A con­ferma della sua tesi, nel primo capi­tolo, dedi­cato alla meto­do­lo­gia della ricerca, Staid riporta una delle testi­mo­nianze più inte­res­santi, per­fino diver­tente, seb­bene rima­neg­giata in eccesso, mi sem­bra. È la sto­ria avven­tu­rosa di tre fra­telli nige­riani, par­titi «clan­de­sti­na­mente» per pro­cu­rarsi il pane e aiu­tare la fami­glia, seguendo la tra­iet­to­ria con­sueta dei ter­ri­bili viaggi attra­verso il Sahara aventi per tappa la Libia e per meta Lam­pe­dusa. Una volta arri­vati in Ita­lia, spe­ri­men­tano forme estreme di sfrut­ta­mento nei campi e nei can­tieri. Infine la svolta, gra­zie alla scuola di vita del car­cere (uno dei tre è pas­sato per San Vit­tore) e al magi­stero di un ber­ga­ma­sco, che li ha ini­ziati allo svuo­ta­mento not­turno dei can­tieri per suo conto. I tre deci­dono di met­tersi in pro­prio, acqui­stano a rate un fur­gone usato e così si fanno pic­coli impren­di­tori ille­gali: «piut­to­sto che lavo­rare per due euro all’ora nei can­tieri, abbiamo pre­fe­rito svuo­tarli di notte».
Que­sta e altre sto­rie simili, rac­colte per mezzo d’interviste non strut­tu­rate (spesso tra­scritte alquanto libe­ra­mente) si adat­tano in modo quasi per­fetto a illu­strare l’assunto cen­trale di Staid: la micro-cri­mi­na­lità come forma di resi­stenza, di «ribel­lione esi­sten­ziale», di auto­de­ter­mi­na­zione. Invece altre, mi sem­bra, non hanno niente che fac­cia pen­sare a qual­che pro­cesso di eman­ci­pa­zione da oppres­sione e subal­ter­nità: che eman­ci­pa­zione è quella dell’egiziano Nabil, spac­cia­tore di eroina, finito più volte in car­cere, dove «ogni giorno era un incubo», come egli stesso dice?
Si ha l’impressione, insomma, che a volte l’ideologia pre­valga sull’etnografia. Fac­cio un altro esem­pio. L’ultimo capi­tolo, dedi­cato all’etnografia di ciò che i media hanno defi­nito «il for­tino della droga», cioè la palaz­zina di viale Bli­gny 42, a Milano, non è che ti fac­cia venire la voglia di andarci ad abi­tare. E non solo per­ché pro­prio lì Mat­teo Sal­vini ha com­prato un appar­ta­mento, come rife­ri­sce Pia, una vec­chia abi­tante di Bli­gny, di ori­gine pugliese, in una delle testi­mo­nianze più ric­che e inte­res­santi. Ma anche per­ché, pur dete­stando la reto­rica demo­niz­zante dei media e dei Sal­vini, pur non nutrendo alcun pre­giu­di­zio raz­zi­sta o mora­li­stico, sem­pli­ce­mente pensi che non ti pia­ce­rebbe assi­stere pas­si­va­mente, per dirne una, alle vio­lenze che gli spac­cia­tori egi­ziani inflig­gono alle trans: ricatti, ves­sa­zioni, aggres­sioni all’arma bianca, come rac­conta la stessa Pia.
Fuor d’ironia, in que­sto caso l’intento apprez­za­bile di mostrare la com­ples­sità sociale e anche la ric­chezza umana e rela­zio­nale di un luogo spesso rap­pre­sen­tato come l’inferno a volte sci­vola verso una reto­rica che tende ad atte­nuare la cru­dezza della realtà, quale emerge dalle testi­mo­nianze degli stessi abi­tanti: «ci sono stati sì» due omi­cidi, com­menta Staid, ma ci sono anche «le mille posi­ti­vità espe­rite in quel luogo».
Ciò mal­grado (e nono­stante una scrit­tura non sem­pre impec­ca­bile), la ricerca di Andrea Staid, par­te­ci­pata nel senso pieno del ter­mine, ha il merito d’incrementare, in modo non con­ven­zio­nale e corag­gioso, un filone di ricerca empi­rica non abba­stanza svi­lup­pato in Italia.

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