lunedì 8 dicembre 2014

EVOLUZIONISMO E SPECIE UMANA. G. MANZI, E Dio creò l'uomo. Anzi, cinque, LA LETTURA, 30 novembre 2014

C’è una specie umana estinta che si chiama Homo erectus. Venne proposta fra il 1944 e il 1950 dal grande zoologo Ernst Mayr sulla base dell’evidenza fossile disponibile allora. Mayr voleva mettere ordine nella tassonomia evoluzionistica del tempo, in quanto riteneva eccessivo il numero di denominazioni in latino e dunque troppe le specie estinte distribuite sul nostro cammino. Oggi, col senno di poi e sulla scorta di una documentazione straordinariamente più ricca, possiamo dire che Mayr si sbagliava e che l’evoluzione umana è invece caratterizzata da un vero groviglio di specie: molte le conosciamo (più o meno bene), altre le intravvediamo e altre ancora ci aspettiamo di scoprirne in futuro.


Ma torniamo agli anni Quaranta del secolo scorso. Mayr, in linea con la visione gradualista della teoria sintetica dell’evoluzione di quegli anni, si opponeva al frazionamento in diverse specie prospettato dai paleoantropologi dell’epoca. Suggerì così di raggruppare nel genere Homo e sotto la denominazione di Homo erectus alcune varietà umane estinte allora note, come Pithecanthropus erectus e Sinanthropus pekinensis. Un’unica specie umana arcaica venne dunque ammessa, conservando l’appellativo specifico erectus, attribuito ai primi resti rinvenuti nell’isola di Giava alla fine dell’Ottocento.
È stato così che, a partire dalla metà del secolo scorso, Homo erectus è venuto a rappresentare il riferimento unico per tutta l’umanità che precedette Homo sapiens (e anche questa specie venne intesa in un senso molto, troppo ampio). In questa prospettiva, Homo erectus rappresentava una sorta di contenitore nel quale riunire buona parte delle conoscenze su una documentazione fossile dalle fattezze arcaiche, sufficientemente diverse da forme successive e/o con un cervello più grande, come i Neanderthal e noi stessi.
All’impostazione dettata da Mayr si affiancarono influenti personalità sia nel campo della biologia generale, come ad esempio il grande maestro di anatomia comparata Wilfrid Le Gros Clark; sia nel campo più specifico dell’antropologia, come Franz Weidenreich, uno dei più eminenti paleoantropologi del Novecento. Col tempo, questo divenne il modello di riferimento per l’evoluzione del genere Homo e tale è rimasto fino a un paio di decenni fa. Anzi, sarebbe meglio dire fino a oggi, visto che in parte della divulgazione, in certi libri di scuola e, talvolta, anche nei manuali universitari il fantasma di questo modello tuttora aleggia nell’aria. In base a questo modo di vedere l’evidenza fossile, l’evoluzione del genere Homo è stata a lungo interpretata come un percorso graduale e lineare a carico di un’unica specie arcaica, la quale avrebbe condotto, quasi ineluttabilmente, attraverso una successione di forme, alla comparsa della nostra specie. Questo è quello che molti di noi chiamano il «paradigma della specie unica».
Se l’evoluzione umana viene vista così, si arriva alla conclusione che sia esistita una continuità biologica tra forme più arcaiche e forme moderne, una continuità che solo arbitrariamente può essere frazionata nel suo divenire. È una prospettiva che può piacere a chi interpreta la comparsa di una qualsivoglia creatura che possiamo definire umana, ancorché primordiale, come l’ineluttabile emergere di una forma di vita talmente speciale da confondersi con qualcosa di soprannaturale. Diventa allora quasi ovvio pensare a una indissolubile continuità che parte dalle prime forme del genere Homo e arriva fino a noi, Homo sapiens. In altre parole, se la teoria vuole interpretare il fenomeno, allora il «paradigma della specie unica» ci mostra un procedere dell’evoluzione che si risolve in un flusso evolutivo unico e continuo, come una sorta di grande fiume che, in modo graduale e progressivo, porta giù-giù, ovvero su-su (coerentemente con l’equivoco terminologico tra evoluzione e progresso) fino all’umanità attuale.
A partire all’incirca dagli anni Settanta del secolo scorso, però, tutto ha iniziato a cambiare. Di nostri antenati e parenti estinti se ne conoscono oggi almeno una ventina e questa tendenza al frazionamento della documentazione fossile non sembra arrestarsi: peraltro, risulta quantomeno utile a muoversi nell’intreccio di un albero evolutivo che appare ormai talmente intricato da essere stato chiamato (con termine che temo possa essere equivoco) il «cespuglio» dell’evoluzione umana.
Ma cosa è successo a partire dagli anni Settanta? In primo luogo c’è da considerare l’aspetto teorico. Nel 1972, due paleontologi del calibro di Stephen Jay Gould e Niles Eldredge proposero un’importante integrazione all’impalcatura della teoria sintetica dell’evoluzione che denominarono «equilibri punteggiati» (o intermittenti). Partirono da una critica al cosiddetto «gradualismo filetico» — quello che nell’evoluzione umana era il «paradigma della specie unica» — focalizzando l’attenzione sull’irregolarità del processo evolutivo così come viene documentato dalle testimonianze fossili. Suggerirono dunque che i fenomeni chiamati macroevolutivi, cioè quelli che riguardano la comparsa di nuovi rami filetici (dal livello di specie in su), seguano modalità differenti da quelli cosiddetti microevolutivi (all’interno delle specie).
La teoria di Gould ed Eldredge afferma pertanto che le forme di vita tendono a rimanere stabili per lungo tempo, evolvendo in modo esplosivo nel corso di brevi periodi e nel contesto di piccole popolazioni isolate.
Visto così, oltre che sulla base della documentazione fossile, l’andamento dell’evoluzione è fortemente discontinuo e potrebbe essere rappresentato da linee verticali intervallate da scarti laterali. Ci appare cioè come fatto di lunghi periodi di relativa stasi evolutiva, interrotti da accelerazioni del cambiamento che corrispondono alla formazione di una o più nuove specie. Le specie dunque non fluiscono l’una nell’altra, come vorrebbe il «paradigma della specie unica». È piuttosto in piccole popolazioni, isolate geograficamente dalle altre, che può formarsi e stabilizzarsi (anche in un tempo piuttosto rapido) un nuovo assetto genetico: solo occasionalmente, dunque, l’equilibrio si spezza e compare, quasi improvvisamente sulla scala dei tempi geologici, una nuova specie. È così che, almeno sul piano teorico, fiorisce la diversità interspecifica, mentre spariscono le traiettorie lineari dell’evoluzione.
C’è poi da prendere in esame la documentazione fossile e preistorica. Quando mi capita di raccontare la storia della paleoantropologia, è proprio intorno agli anni Settanta del secolo scorso che mi devo interrompere, a fronte dell’abbondanza e della varietà di informazioni che da quel momento in poi dovrei prendere in esame. In altre parole, se è possibile disegnare un percorso abbastanza lineare delle nostre conoscenze accumulatesi fino a poco oltre la metà del Novecento, il ventennio successivo rappresenta un momento di svolta, nel quale è successo qualcosa per cui il progresso delle ricerche sull’evoluzione umana ha letteralmente cambiato marcia, sviluppando un cespuglio (questa volta sì che la metafora funziona!) fatto di tante e nuove linee d’indagine sul terreno e in laboratorio.
Quasi che volessero assecondare il modello di Gould ed Eldredge, i paleoantropologi hanno quindi iniziato a scoprire molte più specie nascoste nel nostro passato e a interpretarle in accordo con la nuova teoria. Alcuni autori, in primo luogo Ian Tattersall dell’American Museum of Natural History di New York (un autore piuttosto noto anche in Italia), hanno potuto a questo punto affermare che in passato vi è stata una tendenza a sottostimare il numero delle specie estinte di nostri antenati; lo stesso Tattersall scriveva in un influente articolo del 1986: «Se proprio dobbiamo sbagliare, sarà meglio eccedere (entro limiti ragionevoli) nel riconoscere troppe specie piuttosto che troppo poche».
C’è un dato di fatto che comunque emerge dalle ricerche degli ultimi decenni. La documentazione paleoantropologica ci mostra, con sempre più evidenza, che forme umane diverse fra loro hanno convissuto per lunghi periodi di tempo in aree geografiche distinte o in parte sovrapposte, non succedendosi l’una all’altra, ma rappresentando i molti rami di un percorso evolutivo che non necessariamente porta fino a noi. Ad esempio, c’è stato un momento nell’evoluzione umana — neanche troppo lontano, diciamo intorno a 50 mila anni fa — nel quale di specie umane differenti fra loro ce n’erano almeno cinque e una sola includeva i nostri antenati diretti, cioè rappresentava il ramo di noi Homo sapiens.
Proviamo a dare un’occhiata. Fissiamo le lancette sull’orologio del tempo profondo intorno a quella data: 50 mila anni fa. La nostra specie (Homo sapiens) era comparsa in Africa da tempo e già intorno a 100 mila anni fa aveva iniziato come a traboccare fuori dal continente africano, con un cervello in grado di produrre inedite manifestazioni di pensiero simbolico, forte di una notevole capacità di adattamento e del conseguente successo demografico.
In Vicino Oriente i nostri antenati si sono dapprima confrontati con i Neanderthal (Homo neanderthalensis) diffusi in quelle regioni. Lì probabilmente le due specie si sono anche incrociate, come accade talvolta in natura fra forme di vita molto simili. Le «scappatelle» sono però durate poco, tanto che oggi solo un 2-3% di patrimonio genetico dei Neanderthal è ancora presente in tutti noi (tranne che negli africani). A partire da 60 mila anni fa i nostri antenati si sono poi ulteriormente diffusi, arrivando a confrontarsi più a nord con i Neanderthal dell’Europa mentre, più a sud, presto arriveranno in larga parte dell’Asia e fino in Australia.
Su questa rotta meridionale devono aver incontrato altre due specie umane che ancora esistevano in Estremo Oriente. La prima, ormai relegata nell’isola di Giava e forse in altre parti dell’Indonesia, è Homo erectus. Il binomio in latino da cui siamo partiti non è più visto come lo avevano interpretato Ernst Mayr e gli altri a metà del Novecento, cioè come l’unica specie umana arcaica che precedette Homo sapiens, ma piuttosto come una varietà invero periferica, discendente dei primi Homo diffusi in Asia già a partire da quasi 2 milioni di anni fa. Presente per svariate centinaia di migliaia di anni in gran parte delle terre a oriente dell’Himalaya, il suo areale si era nel tempo ridotto ai territori più meridionali. La seconda specie dell’Estremo Oriente la troviamo ancora più relegata in una piccola isola, a metà strada fra l’Indonesia e l’Australia: si tratta dei cosiddetti hobbit dell’isola di Flores. Appartenevano a una specie denominata Homo floresiensis, che mostra di essere rimasta per così tanto tempo separata dalle dinamiche evolutive che si svolgevano sulle masse continentali tanto da arrivare alle minute dimensioni corporee che le vennero imposte dal fenomeno noto come «nanismo insulare».
Ma non è finita: in altre parti dell’Asia continentale i nostri antenati si confrontano anche con un’altra specie. L’abbiamo individuata solo pochi anni fa sulla base dei dati genetici recuperati da una piccola porzione d’osso scoperta in una grotta dei Monti Altai in Siberia, quasi al confine con la Mongolia. La grande quantità di Dna estratto ha mostrato che questa specie era distinta sia da noi che dai Neanderthal, anche se pure in questo caso devono essersi verificate ripetute ibridazioni con entrambe le specie sorelle. I genetisti li chiamano Denisoviani (dal nome della grotta: Denisova), ma personalmente ritengo si tratti del ramo asiatico terminale di un’altra specie ancora: Homo heidelbergensis.
Insomma, come Ian Tattersall dice spesso: «Non eravamo soli su questa Terra». Intorno a 50 mila anni fa e ancora per alcuni millenni a seguire, di specie umane differenti ce n’erano almeno cinque. Soli sulla Terra lo siamo diventati! Se tutto ciò può rattristare, ci assegna comunque una grande responsabilità nei confronti delle forme di vita che (ancora) esistono su questo pianeta e che sono, come la nostra stessa storia dimostra, estremamente fragili.

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