martedì 2 aprile 2013

SOCIOLOGIA DELLA SOCIETA' DI MASSA. WALTER BENJAMIN E L'INDUSTRIA CULTURALE. SINTESI DE 'L'OPERA D'ARTE NELL'EPOCA DELLA SUA RIPRODUCIBILITA' TECNICA', 1936


W. BENJAMIN, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, 1936 (Einaudi, 1966, 1991)

E' disponibile la sesta parte del saggio, paragrafi 13 e 14.

Sulle questioni sollevate da Benjamin si forniscono ulteriori riferimenti bibliografici:
GURISATTI G., Scacco alla realtà. Estetica e dialettica della derealizzazione mediatica, 
Quodlibet, 2012;
GURISATTI G., Costellazioni. Storia, arte e tecnica in W. Benjamin, Quodlibet, 2010

DATI BIOGRAFICI
   Benjamin nasce a Berlino il 15 luglio del 1892, in una famiglia ebraica. Il padre, Emil, era un ricco antiquario e la madre, Paula Schönflies, proveniva da un'agiata famiglia di commercianti. Studia filosofia. Il 21 luglio 1915, a Berlino, avviene il primo incontro con Gershom Scholem, col quale stringerà una profonda amicizia e un saldo legame intellettuale. Scholem, che abbandonerà poco dopo gli studi di matematica e filosofia per dedicarsi allo studio della mistica ebraica, favorirà l'avvicinamento di Benjamin agli studi sull'ebraismo e un'analisi approfondita del rapporto tra l'ebraismo e la filosofia. Fra il 1920 e il 1927 conosce Ernst Bloch, Franz Rosenzweig, Theodor W. Adorno, Erich Fromm. Nel 1924 aveva conosciuto Asja Lacis, una regista rivoluzionaria lettone con la quale inizierà un rapporto intellettuale e sentimentale che sarà determinante per la sua decisa svolta in senso marxista e comunista. Nello stesso anno fallisce il tentativo di ottenere l'abilitazione presso l'Università di Francoforte ed entrare così nel mondo accademico. La dissertazione presentata da Benjamin in quest'occasione è il fondamentale saggio che oggi conosciamo come Il dramma barocco tedesco. Sul fronte letterario si occupa anche di divulgare l'opera della cugina, la poetessa berlinese Gertrud Kolmar, che verrà deportata ad Auschwitz nel marzo del 1943, alla quale, proprio in questi anni, dedica diversi articoli e recensioni su alcune riviste. Nel 1928 stringe un'altra importante amicizia anch'essa determinante per la sua ulteriore evoluzione intellettuale: incontra e si lega a Bertolt Brecht. A partire dagli anni trenta si avvicina all'Istituto per la ricerca sociale diretto da Max Horkheimer, con il quale i rapporti si faranno più intensi a partire dal 1934-1935. Negli stessi anni si impegna sempre più, oltre che in saggi letterari densi di riflessioni filosofiche (il Leskov, il saggio su Kafka, quello su Baudelaire e il saggio L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica), in un'opera filosofica che, contenuta nelle intenzioni, lo accompagnerà, incompiuta ed estremamente vasta, fino alla morte: il Passagen-Werk. Ormai stabilitosi a Parigi ove sarà "un ascoltatore assiduo delle conferenze del Collège de sociologie"[2], nel settembre del 1939, allo scoppio della guerra, viene internato in un campo di lavori forzati in quanto cittadino tedesco. Tra la fine del 1939 e il maggio del 1940 scrive le Tesi sul concetto di storia, il suo ultimo lavoro e testamento spirituale. Le Tesi avrebbero dovuto essere l'introduzione del Passagen-Werk, che Benjamin non poté completare e che grazie a Georges Bataille fu nascosto e conservato alla Bibliothèque Nationale[3]; gli abbozzi sono stati pubblicati in Italia da Einaudi, prima nel 1986 col titolo Parigi, capitale del XIX secolo e poi nel 2000 col titolo I «passages» di Parigi. Il 14 giugno del 1940 Parigi è occupata dai tedeschi. Benjamin fugge verso la Spagna nel tentativo di varcare il confine per raggiungere una località di mare e imbarcarsi verso gli USA dove già si erano rifugiati i suoi amici dell'Istituto per la ricerca sociale, tra cui Theodor W. Adorno. Nella notte del 25 settembre del 1940, presso la località di Port Bou nella Catalogna spagnola, nel tentativo di sfuggire alla probabile cattura da parte della polizia di frontiera spagnola e alla conseguente espulsione dalla Spagna verso il territorio francese, ormai saldamente nelle mani dell'esercito nazista, Benjamin decide di togliersi la vita ingerendo della morfina. Aveva con sé una valigia nera che custodiva gelosamente, in cui erano contenuti probabilmente dei manoscritti o delle pagine incompiute. Il giorno dopo ai suoi compagni di viaggio sarebbe stato permesso di proseguire per la loro destinazione. Altri suoi amici — tra cui Henny Gurland, futura moglie di Erich Fromm — provvidero alla sua tumulazione nel cimitero di Port-Bou, pagando il fitto del loculo per soli cinque anni. Dopo tale periodo non si sa dove possa essere finito il suo corpo, né la sua valigia nera fu mai più ritrovata. Oggi a Portbou esiste un memoriale che ricorda la figura di Walter Benjamin. Ironia della sorte vuole che il visto che stava attendendo per imbarcarsi per gli Stati Uniti arrivò il pomeriggio successivo al suo suicidio. (da Wikipedia)
L’opera d’arte nel contesto della società tradizionale
1. Il valore cultuale
   “Il modo originario di articolazione dell’opera d’arte dentro il contesto della tradizione trovava la sua espressione nel culto. Le opere d’arte più antiche sono nate al servizio di un rituale, dapprima magico, poi religioso” (26). In questo contesto l’opera fonda il suo significato e la sua funzione non tanto sulla sua visibilità, quanto sulla sua esistenza: “L’alce che l’uomo dell’età della pietra raffigura sulle pareti della sua caverna è uno strumento magico. Egli lo espone davanti ai suoi simili; ma prima di tutto è dedicato agli spiriti. Oggi sembra addirittura che il valore cultuale come tale induca a mantenere l’opera d’arte nascosta: certe statue degli dei sono accessibili solo al sacerdote nella sua cella. Certe immagini della Madonna rimangono invisibili per quasi tutto l’anno; certe sculture dei duomi medievali non sono visibili per il visitatore che stia in basso” (27).



2. Sguardo unico
   La ricezione dell’opera, il modo in cui l’opera si offriva allo sguardo, che pure c’era, dei fruitori tradizionali, era caratterizzata dal fatto che chi guardava era o uno o pochi: “L’osservazione simultanea da parte di un vasto pubblico, quale si delinea nel secolo XIX, è un primo sintomo della crisi della pittura crisi suscitata dalla pretesa dell’opera d’arte di trovare un accesso alle masse (…) Nelle chiese e nei chiostri del medioevo e nelle corti principesche, fin verso la fine del secolo XVIII, la ricezione collettiva di dipinti non avveniva simultaneamente, bensì mediatamente, secondo una complessa gradualità e secondo una gerarchia” (39).



3. L’esperienza dell’aura come esperienza della ricezione nella lontananza
   L’opera d’arte tradizionale era legata ad un ‘tempo’ e ad un ‘luogo’ originari che finivano per costituirne la sua autenticità e la sua unicità: “La sua esistenza unica è irripetibile nel luogo in cui si trova … l’hic et nunc (qui ed ora) dell’originale costituisce il concetto della sua autenticità(22). Unicità, irripetibilità, distanza ed autenticità sono anche ciò che Benjamin chiama ‘aura’: “…apparizioni uniche di una lontananza, per quanto questa possa essere vicina” (25). In una nota che approfondisce il significato della nozione di ‘aura’ l’autore scrive: “La distanza è il contrario della vicinanza. Ciò che è sostanzialmente lontano è l’inavvicinabile. Di fatto l’inavvicinabilità è una delle qualità principali dell’immagine cultuale. Essa rimane, per sua natura, ‘lontananza per quanto vicina’” (49)

Irina Werning, Back to the Future

BENJAMIN. L’OPERA D’ARTE NELL’EPOCA DELLA SUA RIPRODUCIBILITA’ TECNICA. 1


L’arte nel contesto della società di massa
4. Immagini e suoni nella società della produzione indifferenziata di merci e servizi
   Le rivoluzioni tecnologiche che hanno portato alla nascita della fotografia e del cinema sono paragonabili ad altre rivoluzioni tecniche che un poeta francese, Paul Valéry, definisce così nel 1934: “Come l’acqua, il gas o la corrente elettrica entrano, grazie ad uno sforzo quasi nullo, provenendo da lontano, nelle nostre abitazioni per rispondere ai nostri bisogni, così saremo approvvigionati di immagini e di sequenze di suoni che si manifestano ad un piccolo gesto, quasi un segno, e poi subito ci lasciano”. Colpisce il fatto che, in queste righe, non si faccia notare nessuna differenza qualitativa fra gas, acqua e corrente elettrica, da una parte, ed immagini e suoni dall’altra. Tutto sembra ormai essere nelle mani del potere tecnico, capace di soddisfare bisogni ed esigenze secondo una logica esclusivamente economicistica, di produzione, scambio e consumo di beni e servizi equivalenti ed indifferenziati.

5. La riproducibilità tecnica svaluta il carattere dell’autenticità e dell’unicità
   Il primo fenomeno messo in luce da B. è quello della ‘svalutazione dell’hic et nunc dell’opera’, cioè della sua autenticità ed unicità. Per esempio, una fotografia o un disco che riproducono eventi particolari, possono far abbandonare “l’ubicazione originaria” di quegli eventi: “La cattedrale abbandona la sua ubicazione per essere accolta nello studio di un amatore d’arte; il coro che è stato eseguito in un auditorio oppure all’aria aperta può venire ascoltato in una camera” (22-23) (…) La tecnica della riproduzione, così si potrebbe formulare la cosa, sottrae il riprodotto all’ambito della tradizione. Moltiplicando la riproduzione, essa pone al posto di un evento unico una serie quantitativa di eventi. Permettendo alla riproduzione di venire incontro al fruitore nella sua particolare situazione, attualizza il riprodotto. Entrambi i processi portano ad un violento rivolgimento che investe ciò che viene tramandato – ad un rivolgimento della tradizione* che è l’altra faccia della crisi attuale e dell’attuale rinnovamento dell’umanità. Essi sono strettamente legati ai movimenti di massa dei nostri giorni. Il loro agente più potente è il cinema” (23).


6. La modificazione della ricezione e la reazione “religiosa” degli artisti e dei tradizionalisti
   Nella società di massa si assiste a due fenomeni: il primo è quello di “rendere le cose, spazialmente ed umanamente, più vicine”; l’altro è quello di tendere al “superamento di qualunque dato mediante la ricezione della sua riproduzione. Ogni giorno si fa valere in modo sempre più incontestabile l’esigenza di impossessarsi dell’oggetto, da una distanza il più possibile ravvicinata, nell’immagine, o meglio, nell’effigie, nella riproduzione” (25). Quello che si contrappone è il quadro e il rotocalco: l’immagine del primo è unica e durevole; le immagini dei giornali sono labili e si ripetono. Si tratta di due mondi che entrano inesorabilmente in conflitto. Benjamin sottolinea il fatto che, quando gli artisti che lavorano nella società di massa, si accorgano dell’insorgere di queste trasformazioni tecniche, cercano di difendersi teorizzando la dottrina dell’”arte per l’arte”**, una specie di “teologia dell’arte. Successivamente da essa è nata addirittura un teologia negativa nella forma dell’idea di un’arte ‘pura’ la quale non solo respinge qualsiasi funzione sociale, ma anche qualsiasi determinazione da parte di un elemento oggettivo (nella poesia, Mallarmé*** è stato il primo a raggiungere questo stadio)” (26).
   Benjamin sembra particolarmente attratto da queste modalità di difesa dell’aura religiosa propria dell’opera d’arte tradizionale. Così, egli scrive, vedremo che coloro i quali credono di poter salvare l’arte da questo inevitabile processo di svalutazione dell’autentico ricorreranno ad una serie di strategie come quella, per esempio, di chi rincorre l’esecuzione unica; o come quella del collezionista “il quale conserva sempre alcuni tratti del servo di un feticcio e che, attraverso il possesso di un’opera d’arte partecipa alla virtù cultuale di questa” (49).
   Il fatto è che quello che avviene nella società di massa è proprio questa emancipazione dell’opera dall’ambito del culto e del rituale: “L’opera d’arte riprodotta diventa, in misura sempre maggiore, la riproduzione di un’opera d’arte predisposta alla riproducibilità” (27).


BENJAMIN. L’OPERA D’ARTE NELL’EPOCA DELLA SUA RIPRODUCIBILITA’ TECNICA. 2


   Se la caratteristica funzionale maggiore dell’opera d’arte nella modernità appare la sua esponibilità, la sua fruizione e ricezione di massa, ciò produce tutta una serie di effetti, soprattutto a livello tecnico. Un mosaico, un affresco, una messa non sono ripetibili o trasferibili in altri luoghi. Ma un quadro, una sinfonia possono esserlo più facilmente. La riproduzione tecnica rende l’esponibilità e l’andare verso i fruitori così facile al punto tale da cambiare perfino la natura qualitativa dell’opera, natura che non è più artistica ma che diventa semplicemente natura mercificata.

Irina Werning, Person

7. Le resistenze ‘religioso-auratiche’ nella fotografia e nel cinema di fronte alla riproducibilità tecnica e alla sua nuova funzione politica

   Piuttosto che perdere tempo a chiedersi se la fotografia potesse svolgere ancora una qualche funzione artistica, sarebbe stato meglio chiedersi se con la fotografia e con le altre tecniche di riproduzione non si “fosse modificato il carattere complessivo dell’arte” (30). Lo stesso errore che si fa in campo di teoria cinematografica, quando diversi autori cercano di sforzarsi per “far rientrare il cinema nell’arte, costringendo tutti questi teorici ad attribuirgli, con una pervicacia senza precedenti, quegli elementi cultuali che non ha” (30).
   Secondo Benjamin questo atteggiamento in “difesa dell’aura” rivelerebbe addirittura un’anima conservatrice e reazionaria quando lamenta ancora la mancata rappresentazione del soprannaturale al posto della “sterile copia del mondo esterno, con le sue strade, i suoi interni, le sue stazioni, ristoranti, macchine, spiagge” (31). In effetti è esattamente questo ‘realismo’, proprio anche delle fotografie di Eugene Atget (1857-1927), a rendere fotografia e cinema aperti ad un’altra funzione, quella sociale e politica: “Con Atget le riprese fotografiche cominciano a diventare documenti di prova nel processo storico. E’ questo che ne costituisce il nascosto carattere politico” (29). Nelle fotografie di Atget non ci sono persone, tanto meno volti. Ci sono solo le vie delle città prive di persone. La stessa cosa avviene nei giornali illustrati: il lettore si trova davanti a delle didascalie. Anche nei film lo spettatore comincia a subire delle direttive precise sul modo in cui deve interpretare le immagini. In tutti questi casi, dice Benjamin, cambia il meccanismo della ricezione perché lo sguardo di chi guarda è sempre più diretto prescrittivamente (obbligatoriamente) in una certa direzione. Questa prescrittività, questo essere obbligati a guardare certe cose (il mondo sociale in cui si vive?) indica al cinema e alla fotografia altre strade ed altre funzioni che non quelle magico-religioso-auratiche del passato.


8. Gli effetti sull’attore e sullo spettatore della ripresa cinematografica

   Il cinema, secondo B., da un lato si incentra sul montaggio, sui movimenti di macchina e sulle inquadrature, dunque su elementi che ci propongono le cose viste da particolari punti di vista; dall’altro, ciò che conta è la macchina da presa e niente altro. Dunque, al centro dell’azione cinematografica c’è il regista che, di fatto, sottopone a dei test sia gli attori sia lo spettatore. Benjamin giunge a sostenere che il regista sia l’equivalente degli esperti che, in quegli anni, il sistema economico capitalistico cominciava ad impiegare per stabilire le attitudini professionali degli individui: “In queste prove professionali si verificano frammenti della prestazione dell’individuo. La ripresa cinematografica e la prova di attitudine professionale nascono dallo stesso grembo costituito dagli esperti. Il direttore di scena, negli studi cinematografici, occupa esattamente la stessa posizione che nelle prove professionali è occupata dal direttore dell’esperimento” (52). Il regista, insomma, è un manipolatore, qualcuno che allestisce degli esperimenti finalizzati ad ottenere determinate reazioni e negli attori e negli spettatori. Così l’attore diventa una marionetta nelle sue mani e la sua prestazione appare frammentata, fatta da tante prestazioni diverse (Benjamin fa riferimento alle tecniche di ripresa proprie del cinema che costringono a “ scomporre la recitazione dell’interprete in una serie di episodi montabili” (33). In tal modo l’hic et nunc della presenza, irripetibile e immobile, del’attore teatrale scompare del tutto nell’attore cinematografico la cui immagine, ricostruita dopo mesi di riprese, in posti diversi e in tempi diversi, viene trasportata davanti al pubblico, al “pubblico degli acquirenti che costituiscono il mercato” (34).




9. L’uso dei mezzi di riproduzione produce nuovi effetti anche sul modo di fare politica

   Come l’attore, nel cinema, viene manipolato, segmentato, frammentato e rimontato per essere poi esposto al pubblico, la stessa cosa avviene nel modo di fare politica: “Le democrazie espongono colui che governa immediatamente, con la sua persona, e lo espongono di fronte ai rappresentanti del popolo. Il parlamento è il suo pubblico! Con le innovazioni delle apparecchiature di ripresa, che permettono di far sentire e poco dopo di far vedere l’oratore ad un numero illimitato di spettatori, l’esposizione dell’uomo politico di fronte a queste apparecchiature di ripresa assume un ruolo di primo piano. Si svuotano i parlamenti contemporaneamente ai teatri. La radio e il cinema modificano non solo la funzione dell’interprete professionista, ma anche quella di coloro che, come i governanti, interpretano se stessi” (53).
   Lo stesso destino coinvolgerebbe il politico e l’attore: queste tecniche di riproduzione farebbero in modo che sia l’uno che l’altro siano costretti a dare vita a “prestazioni verificabili, anzi, adottabili in determinate condizioni sociali. Ciò ha come risultato una nuova selezione, una selezione che avviene di fronte all’apparecchiatura; da questa selezione escono vincitori il divo e il dittatore” (53).


10. Il divismo come forma (illusoria) di resistenza auratica

   Secondo B., come avvenuto anche in altri settori della cultura, così anche in certi ambienti dell’industria cinematografica si pensa di restaurare la condizione perduta dell’esperienza auratica. Il divismo rappresenta, per B., proprio questa risposta al declino dell’aura: “Il culto del divo, promosso dal capitale cinematografico, cerca di conservare quella magia della personalità che da tempo è ridotta alla magia fasulla propria del suo carattere di merce


11. La funzione rivoluzionaria del cinema

   Benjamin confronta, ad un certo punto, l’uso del cinema nel mondo occidentale e in quello sovietico, dove si era instaurato il comunismo. In entrambi i sistemi (in misura maggiore, in quello occidentale) si assiste ad un nuovo fenomeno che li allontana dalle società precedenti: come sempre più persone qualsiasi possono tentare di diventare scrittori, lo stesso avviene anche per quanti vogliano diventare attori. La distinzione fra autore e pubblico viene meno perché ogni lettore è pronto a diventare autore, ogni spettatore è pronto a diventare comparsa od attore (si tratta del fenomeno già notato da Tocqueville nel suo soggiorno americano).
   Benjamin cita, poi, una lunga nota dello scrittore britannico Aldous Huxley (1894-1963) (autore de Il mondo nuovo, 1932; Le porte della percezione, 1954; Ritorno al Mondo nuovo, 1958) in cui si lamenta il fatto che l’incremento di nuovi scrittori e nuovi musicisti, così come quello di un pubblico sempre più vasto (reso possibile dall’ampliamento della scolarizzazione e da stipendi alti) capace di consumare questi prodotti, avrebbe incrementato, in realtà, soltanto l’aumento di produzioni di pessima qualità. Un giudizio, sostiene B., per niente progressista. Quando invece proprio in questa direzione si dovrebbe guardare: verso un uso rivoluzionario, progressista di questi nuovi mezzi, in particolare del cinema. Basti guardare a ciò che avviene proprio in URSS: “Una parte degli interpreti del cinema russo non sono interpreti nel nostro senso, ma sono persone che interpretano se stesse, in primo luogo nel loro processo lavorativo*. Nell’Europa occidentale lo sfruttamento capitalistico del cinema impedisce di prendere in considerazione la legittima pretesa dell’uomo odierno di essere riprodotto. In questa situazione, l’industria cinematografica ha tutto l’interesse ad imbrigliare, mediante rappresentazioni illusionistiche e mediante ambigue speculazioni, la partecipazione delle masse” (36).








* Probabile riferimento al cinema di S. Eisenstein: “Nel 1923-1924 Eisenstein studiò cinema e tecniche di montaggio cinematografico con i registi Lev Kuleshov e Esfir Shub, convincendosi sempre di più che proprio il cinema, perfetta sintesi tra arte e scienza, fosse il mezzo artistico più adatto a coinvolgere totalmente lo spettatore e a rappresentare i drammi del proletariato. Nei primi film di Eisenstein i protagonisti non saranno mai singoli individui (come invece accadeva nel teatro borghese) ma la folla. I ruoli di spicco saranno interpretati da persone senza esperienza professionale, ma che avevano un aspetto immediatamente riconoscibile in rapporto alla classe sociale che dovevano rappresentare. Ad esempio in ‘Sciopero’ i borghesi erano rappresentati come obesi mentre mangiavano, bevevano e fumavano, mentre i lavoratori erano tutti più asciutti, atletici e simpatici.
Eisenstein fu uno dei primi teorici di tecnica cinematografica, soprattutto riguardo al montaggio, usato non tanto per fare l’ esposizione di una storia attraverso l’assemblaggio di scene, ma come strumento col quale rafforzare la trama del film ed il suo significato. Attraverso il ‘contrasto’ tra scene, il montaggio poteva essere usato per guidare le emozioni del pubblico e creare nuove associazioni di idee, cosi da scuoterlo e svegliarlo dal torpore dell'assorbimento passivo della storia. Eisenstein non smise mai di lavorare e ridefinire costantemente le sue idee sul montaggio cinematografico.” 

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12. Il cinema ha potenziato le capacità sensoriali umane, soprattutto la vista e l’udito

    Le riprese cinematografiche consentono di “isolare ed analizzare cose che prima fluivano inavvertite (…) approfondiscono l’appercezione su tutto l’arco del mondo della sensibilità ottica ed ora anche di quella acustica”. Il cinema ripropone quella tendenza che fu propria del Rinascimento consistente nel mettere insieme arte e scienza:” Nel rinascimento troviamo un’arte la cui importanza si fonda sul fatto che essa riesce ad integrare tutta una serie di nuove scienze e nuovi dati scientifici. Essa si serve dell’anatomia e della prospettiva, della matematica e della meteorologia oltre che della teoria dei colori” (54). Il cinema, infatti, consente di penetrare “profondamente nel tessuto dei dati” così come fa il chirurgo quando opera, consente di analizzare e di essere estremamente precisi cosicché, alla fine, si riesce ad avere una elaborazione della realtà più ricca rispetto a quella di una coscienza umana. Tutto questo lo si ottiene attraverso le varie tecniche di ripresa: il primo piano, il rallentatore, l’ingrandimento: “si capisce, così, come la natura che parla alla cinepresa sia diversa da quella che parla all’occhio” (41). Tecniche che permettono di vedere cose che, altrimenti, non vedremmo: “Se siamo più o meno abituati al gesto di afferrare l’accendisigari o il cucchiaio, non sappiamo nulla di ciò che effettivamente avviene fra la mano e il metallo per non dire, poi, del modo in cui ciò varia in relazione agli stati d’animo in cui noi ci troviamo. Qui interviene la cinepresa, coi suoi mezzi ausiliari, col suo scendere e salire, col suo interrompere ed isolare, col suo ampliare e contrarre il processo, col suo ingrandire e ridurre” (42)



Michelangelo Antonioni, Blow up (1966)

Brian De Palma, Blow out (1981)



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13. La qualità tattile del cinema e l’effetto di shock fisico

   Partendo da alcune riflessioni sulle pratiche artistiche d’avanguardia come il dadaismo, B. sostiene che “uno dei compiti principali dell’arte è stato sempre quello di generare esigenze che non è in grado di soddisfare attualmente” (42). Per cui è stato necessario aspettare che determinate tecniche siano apparse per rendere realizzabili quei tentativi: “Il dadaismo cercava di ottenere con i mezzi della pittura, oppure della letteratura, quegli effetti che oggi il pubblico cerca nel cinema” (42).
   L’avanguardia anticipa, nelle sue reali finalità, quella che diventerà la finalità principale del cinema: essere qualcosa che colpisca, come un proiettile, lo spettatore assumendo una straordinaria “qualità tattile” ed un obiettivo di diversione attraverso “il mutamento dei luoghi dell’azione e dell’inquadratura che investono gli spettatori a scatti” (43). Diversamente di quanto avviene di fronte ad un quadro, laddove l’osservatore è invitato alla contemplazione, “di fronte all’immagine filmica lo spettatore non può abbandonarsi al flusso delle sue associazioni. Non appena l’immagine viene colta, essa si è già modificata poiché non può essere fissata (…) il flusso associativo di colui che osserva queste immagini viene subito interrotto dal loro mutare. Su ciò si basa l’effetto di shock del film che, come ogni effetto di shock esige di essere accolto con una maggiore presenza di spirito” (43-44)

Cronenberg, Videodrome, 1983



14. La ricezione nella distrazione e l’esempio dell’architettura

   L’avvento delle masse ha determinato un modo diverso di partecipazione e di ricezione, in particolare di fronte allo spettacolo cinematografico. Fatto che ha costretto alcuni critici a definire il cinema un passatempo per idioti incapaci di pensare e ragionare. Giudizio che B., a sua volta, respinge perché simile a quello di chi vorrebbe ancora difendere una concezione auratica e religiosa dell’esperienza artistica. L’autore cerca di proporre alcune considerazioni  di fronte a questa contrapposizione banale fra raccoglimento (tipico atteggiamento che richiederebbe l’opera d’arte autentica) e distrazione (l’atteggiamento deplorevole delle masse moderne).
   Per spiegare il suo punto di vista, fa riferimento all’architettura: “L’architettura ha sempre fornito il prototipo di un’opera d’arte la cui ricezione avviene nella distrazione e da parte della collettività. Le leggi della sua ricezione sono le più istruttive” (45).
   Mentre certe forme d’arte sono nate e poi morte, l’architettura accompagna l’umanità da sempre e non è uscita di scena. Pertanto “rendersi conto del suo influsso è importante per qualunque tentativo di comprendere il rapporto fra le masse e l’opera d’arte” (45).
   Ci sono due modi con cui l’architettura entra in contatto con gli esseri umani: tramite l’uso e tramite la percezione. Detto altrimenti “in modo tattico e in modo ottico” (45). Il rapporto tattico si fonda sull’abitudine e questa determina perfino la ricezione ottica che avviene tramite “sguardi occasionali”, non certo su attente osservazioni né su contemplazioni.






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